Mandrione, come una vertigine
MANDRIONE è prima di tutto un nome. Praticamente nessuno a Roma che non sia un archeologo o un carrozziere o un pappa o un impiegato della Banca d’Italia (vedremo poi perché) ha una percezione chiara di questo luogo, ma il nome sì, il nome produce una strana eco e uno si ricorda di esserci stato, magari una notte, in un tour avventuroso…
I falò delle prostitute, le grandi sagome buie degli acquedotti che si accavallano l’uno sull’altro, i treni che ti sfrecciano sotto i piedi… Pasolini, il cinema… gli zingari…
Io non ci andavo forse da quindici, vent’anni. Ragazzi, Roma è inesauribile. Mi ci sono ritrovato una mattina per sbaglio, cercando il commissariato di Torpignattara. E allora ho cominciato a tornarci, una, due, tre volte, e ancora: in metropolitana (fermata: Porta Furba-Quadraro), in moto, in Vespa, in automobile, da solo o a piedi con un amico architetto, Alberto Alessi, che mi spiegava l’unicità di questo luogo dove s’incrociano almeno quattro paesaggi totalmente diversi, uno per ogni punto cardinale, e una vertiginosa stratificazione di storia e antropologia.
Il modo migliore è sempre su due ruote, e imboccando via del Mandrione da fuori, da Porta Furba, sulla Tuscolana. Anche qui il nome, allusivo: alcuni dicono che si chiami cosi per la presenza di briganti o ladri (dal latino -fur). Per me era sinonimo di una porta che frega chi ci passa sotto: una specie di avvertimento sul carattere fraudolento e ironico della città che finge di accoglierti coi suoi grandiosi monumenti – quando in realtà si fa beffe di te. Ti sfila il portafoglio, mentre hai il naso per aria a guardare gli acquedotti. Ti lascia a bocca aperta. E in effetti, oltrepassato il primo arco, si entra in un altro mondo. Innanzitutto, questa è la campagna romana. Ma sì, il mito di viaggiatori e di pittori. Stiamo entrando in città, eppure subito ne siamo fuori. Espulso, sospesi nel tempo. Lo dico senza enfasi, o forse con un po’ di enfasi: è un posto meraviglioso. Gli archi sono masse cupe che si inseguono e si accoppiano. I primi sono interamente murati, altri murati a metà o quanto bastava per costruirci sotto una casetta, una capanna, un magazzino. Gli acquedotti sono tre, l’Acqua Claudia, l’Acqua Marcia (romani) e l’Acquedotto Felice, costruito da papa Sisto V usando i pezzi dei primi due, gli avanzi di un immenso Lego (mi viene in mente una frase di Kafka sul fatto che la nostra esistenza è come costruirsi una casa nuova usando i pezzi della vecchia: e intanto abitiamo in questa incompletezza, in questo continuo trasloco). I due antichi corrono paralleli, almeno virtualmente, perché del Marcio non resta quasi nulla, e quello Felice si accoppia ora all’uno ora all’altro scavalcando il Mandrione da destra a sinistra e poi ancora a destra e poi di nuovo a sinistra, come se non sapesse decidersi. Più avanti le arcate scompaiono dietro mura alberi e cancelli.
Il Mandrione era famoso anzi mitico per la baraccopoli. E per gli zingari, per lo più Rom abruzzesi che vennero ad abitarci tra le due guerre. Fu materia di varie indagini sociologiche, tra cui una bellissima ricerca di Franco Pinna che ci tornò a fotografare nel 1956 e nel 1968. Allora: «… c’erano, davanti ai loro tuguri, a ruzzare sul fango lurido, dei ragazzini, dai due ai quattro o cinque anni…» (indovinate un po’ chi ha scritto questo). Ancora quand’ero ragazzo io e ci passavo col vespino per le trasferte calcistiche o musicali, me lo ricordo come un posto brulicante. Ora è quasi deserto. Gli zingari pare che abitino le case popolari a Spinaceto o hanno comprato più avanti, sull’Anagnina. Tutta la striscia a sinistra del Mandrione è proprietà della Banca d’Italia, ai cui impiegati invidio i campi verdi bene innaffiati. E l’erba rara per il calciatore romano, abituato a pestare spianate di terra dura come cemento o affondare nella pozzolana. A destra invece: una sfilza di carrozzieri, fabbri, falegnami, e poi fabbricanti di gommapiuma, infissi, profilati, cancelli, porte blindate, metal-qualcosa, sider-qualcosaltro.
Ecco dove sono finiti tutti gli artigiani della città! Ormai a Roma la gente che lavora si nasconde, è diventata invisibile. Riserve indiane, oasi del lavoro manuale.
Di cani invece ce n’è tanti: ogni volta che sosto davanti a un cancello… dieci secondi e arriva una bestia o più bestie ululanti, in genere lupastri dalle orecchie troppo lunghe o flosce o strappate a morsi e dal pelo chiazzato, pastori tedeschi ibridati, improbabili…
Il Mandrione. si snoda lunghissimo e silenzioso. Passata la stazione Casilina, risbucano dal nulla gli archi a fianco della strada e incastonato come una fortezza d’angolo, un mulino. Di li parte via della Marrana. Proprio a ridosso dell’acquedotto, ma sul lato che dà verso la Tuscolana, c’è un bellissimo centro sportivo, l’AS “Le Mura”, quintessenza di romanità, cinquantenni che a mezzogiorno si scambiano pallonetti e battute acide. Sullo sfondo. le arcate secolari, tutte sbreccate contro il cielo azzurro, con ciuffi di rampicanti che invece di rampicare penzolano, e appendiabiti inchiodati nella malta. Di nuovo, debbo dire, che questo è meraviglioso: questa compresenza. Di tempi e funzioni. Qualcosa che sta tra un’elegia struggente e la parodia. Nel silenzio quasi campestre risuonano le grida dell’istruttrice dell’Acquagym e i bassi della musica techno.
Ora siamo nella zona più misteriosa del Mandrione. Il piano stradale si alza per cui le arcate si fanno basse, nane. Molte all’interno sono piastrellate, intonacate, dalle tamponature sbucano ancora gli attacchi dei cessi divelti, dei lavandini. Altre sono sbarrate da reti e ondulati metallici. Qui ci abitava un sacco di gente. Hanno strappato via le baracche, scoperchiando le stanzette ricavate nell’acquedotto. Portate violentemente allo scoperto, le maioliche brillano come sui portali di Babilonia. O come nelle case che ho visto nei dintorni di Mostar, Bosnia, fatte esplodere una per una, con metodo, squarciate dall’interno. Materassi sparsi un po’ ovunque. Nel pieno sole fervono le tracce dei traffici notturni. Duecento metri più avanti, tecnicamente parlando, il Mandrione termina, ripassando sotto l’acquedotto e ramificandosi in un quartierino di villette e orti molto ben curati, un piccolo feudo giallorosso su cui campeggia, appeso con lo spago tra una palazzina e l’altra, un paio dl forbicioni simbolici, con cui i “cuginetti” (ma perché questa parentela?) hanno scucito lo scudetto dalla maglia del laziali. Lo so, tout comprendre c’est tout parrdonner… anche se io sono un po’ stufo sia di comprendere che di perdonare!
La strada che continua a correre sotto l’Acqua Felice qui è la Casilina Vecchia, ma ha il medesimo ritmo sonoro scandito dal passaggio radente del maxi-scooter e i flash visuali degli archi: luce-ombra-luce-ombra-luce, arco-pilone-arco-pilone. E ancora fabbrichette di porte blindate (una vera ossessione…), sfasciacarrozze coi musi e le occhiaia vuote di 500 e Giulia Super che sbucano a mezz’altezza tra le arcate, e fasci di binari a stringere a tenaglia l’abitato. Mi fermo di fronte a una deliziosa casetta ridipinta di verde, col cartello VENDESI, è un locale videobar “per soci con tessera Arci”, e da una Simca perfettamente mantenuta sl sporge il guidatore per informarmi: «Là, se vuoi, se scopa».
Sento di essere nell’ombelico della visione. All’incrocio perfetto. II paesaggio si è fatto verticale. Cinque o sei livelli sovrapposti e intersecati. L’acquedotto, in alto. Un Eurostar che sfreccia verso Napoli. La schiena arancione dei bus e le facciate gialle dei palazzoni laggiù sulla Casilina. Voltandomi, a occidente, stagliata, la torretta con l’orologio fascista della ex-fabbrica di lampadine Coppola e l’agglomerato della Stazione Tuscolana, verso cui, sbucando all’improvviso dalla galleria sotto i miei piedi, striscia faticosamente un treno merci.
E’ la vertigine. E proprio in questo punto, in questo snodo ideale, si affacciano tra gli archi le statue di gesso, anzi, di “marmocemento” (!!) della fabbrica “ROMA ANTICA”: Ursus che piega la testa del toro, un imperatore Giulio-Claudio a scelta, un bronzo di Riace (quello più rnollaccione) e poi colonne infrante, satiri, veneri callipigie, e la copia della Bocca della Verità, dove mio padre, copiando Gregory Peck (o era Gregory Peck che copia mio padre?) mise la mano dopo aver sposato mia madre A.D. 1955. E’ il trionfo di Roma, del suo beffardo gioco vero-falso. La materia dell’illusione, il “marmocemento”…
Torno indietro sulla Tuscolana e dal Quadraro mi rifaccio il Mandrione per misurarlo sul contachilometri della moto. Incredibile: è come via del Corso, anzi più lungo: due chilometri. E se ci aggiungo l’ultimo pezzo di Casilina, diventa un tragitto come da Piazza del Popolo al Colosseo. Un impressionante pezzo di città…
Proprio al termine del percorso, mentre la Casilina s’imbuca contromano sotto un arco solitario con su scritto: MOTO PERICOLO!!, ripassando sotto l’Acqua Felice la strada prende nome di Via della Stazione Tuscolana e forma un gomito, una piccola ansa di qualche decina di metri quadrati, nascosta dall’ombra di fichi e palme. Qualcuno, la dentro, protetto dall’incannucciata, sta lavorando. Cosa fa? Zappa la terra.
E’ un orto di guerra, incastonato nella città.
Edoardo Albinati – Repubblica del 31 ottobre 2001