Trinità dei Monti – Intervista
Trinità dei Monti – Intervista
Tra me e la Scalinata della Trinità dei Monti corrono dei vecchi rapporti d’amicizia. La conosco dai giorni ormai lontani della mia infanzia. Ricordo d’esser ruzzolato da bambino lungo i suoi gradini senza farmi alcun male, potevo rompermi la testa ma la Scalinata ha avuto la gentilezza di guidare maternamente il mio ruzzolone in modo da evitare che io provassi la durezza dei suoi spigoli, che collaudassi la resistenza marmorea di una delle sue più ripide rampe.
Gliene fui 1stintivamente grato e la riconoscenza e la simpatia ebbero sempre il posto d’onore nella mia ammirazione per la magnifica scalea.
Tutti questi sentimenti mi decidono oggi a intervistare il belmonumento, che pur avendo un cuore di pietra, mi sembra più palpitante ed umana di tanti altri monumenti in carne ed ossa.
L’aria d’aprile, la tepida luce d’un soleggiato mattino romano dànno al nostro colloquio un carattere giocondo e confidenziale.
La Scalinata parla con maestosa bonarietà:
– Ti risparmio le mie vicende edilizie e architettoniche. Se ci tieni molto a conoscerle leggi il recente volume di Pio Pecchiai che illustra le mie origini e narra quanti decenni ci vollero per mettermi al mondo.
L’autore del libro mi chiama la Scalinata di Piazza di Spagna. Ha indubbiamente le sue brave ragioni per battezzarmi così, però non nascondo che preferisco di sentirmi chiamare Scalinata della Trinità dei Monti.
C’è qualcosa di più alto e divino in questo nome. Mi sembra di salire e di arrivare al punto culminante.
– D’accordo con te. Le scale sono destinate a portare a sommo di qualche cosa. Se la vita dev’essere una continua ascensione ciò che conta è dove si arriva e non il luogo da cui si parte.
– Ecco perchè ci troviamo meglio quassù. Tu ti appoggi alla balaustra che è un belvedere incantevole e suggestivo. lo sono felice d’averti fatto fare cento e tanti gradini per offrirti un quadro di bellezza incorniciato di sole, di verde e d’azzurro. Il poeta di Endimione …
– Keats?
– Sì. Abitò, come sai, laggiù nella prima casa a sinistra. Questo poeta scrisse che una cosa bella è una gioia eterna per gli occhi. Anche lui ha ammirato da qui, moltissime volte, il panorama che s’apre dinanzi ai tuoi sguardi e ricordando il suo verso si è convinto d’aver detto una grande verità. Non c’è stato visitatore di Roma, illustre od oscuro che fosse, ch’abbia dimenticato di affacciarsi a questa balconata per riempirsi le pupille e l’anima di tanto splendore.
Gogol usciva dalla sua casa di via Sistina e sostava qui scordando per qualche minuto il suo amaro umorismo. Stendhal che dimorò lungo tempo in via Gregoriana ha meditato e fantasticato di quassù frequentemente.
Goffredo Herder. ..
– Quello che definì l’Italia il paese dei sensi?
– Proprio lui. Ti dirò in confidenza una cosa che forse nessuno conosce. Venne qui a rileggersi una lettera di sua moglie Carolina. Costei gli scriveva dalla Germania: « Goethe mi ha detto ultimamente, scherzando, che tu non ti troverai bene a Roma se non t’innamorerai>>.
– L’amore facilita la comprensione della bellezza. Rende viva e palpitante persino la polvere antica. Riempie di una linfa primaverile qualsiasi entusiasmo.
– Lo credo. Quanti artisti italiani e stranieri si sono innamorati delle avvenenti ciociare che vendevano le violette laggiù ai miei piedi! Qualcuna di quelle ciociare è diventata immortale attraverso quadri e sculture. Qualche altra ha avuto una gloria mondana indimenticabile.
– Ricordo anche, vagamente, ciociarette e ciociaretti. Improvvisavano dei piccoli balli su uno dei tuoi ripiani. Per attirare l’attenzione dei forestieri. Danzavano forse più per dare sfogo alla loro esuberante vitalità che per i quattro baiocchi che potevano rimediare dai passanti. La loro maggiore aspirazione era quella di posare negli studi
di via Margutta. Modelle di prim’ordine, in quanto a bellezza di lineamenti e di forme.
Se ne contano parecchie che dopo aver posato hanno sposato l’artista che le aveva ritratte nella creta o sulla tela. Ma tutto ciò è roba d’altri tempi.
Come sono d’un’epoca, oramai lontana negli anni, discussioni tra i giovani pittori che, usciti a tarda notte dal Caffè Greco venivano, nei pleniluni d’estate, a sedere sui miei gradini per polemizzare intorno alle tendenze delle nuove scuole. Zazzere incolte, cravatte svolazzanti, giacche di velluto e voci talmente sonore da costringere il silenzio a ritirarsi nei misteri arborei di Villa Medici.
C’era anche qualche artista letterato che declamava liriche dannunziane, probabilmente con la faccia rivolta alla Casa degli Zuccar, nella speranza di risvegliare la immaginosa figura di Andrea Sperelli, che il poeta colà domiciliò.
– L’arte di Gabriele d’Annunzio era allora molto discussa. Come la musica di Wagner. Anche lui è stato qui. Non so se per ispirarsi o per farsi ravvolgere dalla luce salutare del sole di Roma. Ma quanto abbiamo chiacchierato!
– Non sono chiacchiere queste. È un bagno nell’onda immortale delle cose belle. Se ne esce tonificati e vivificati da questa eterna primavera dello spirito.
-La primavera! Che divina stagione! E come è gentile verso la vecchia Scalinata della Trinità dei Monti! Vedi, ha deposto ai miei piedi fiori fiori e fiori. Odorosi, freschi, carnosi. Non trovo parole per ringraziarla. Però io e la Barcaccia di Pietro Bernini ci siamo d’accordo da un paio di secoli. E quando la quiete notturna è altissima
l’acqua della fontana canta sottovoce un inno di riconoscenza che è tutto un elogio e una esaltazione della giovinezza di Roma sempre in fiore.
Luciano Filore – 1942
Tratta da “Strenna dei Romanisti” 1942