Sorella Morte a Roma


“Nei secoli scorsi, quando Roma era più piccola, non aveva una vera e propria necropoli. Piccoli cimiteri erano disseminati un po’ ovunque, accanto alle chiese o all’interno dei chiostri, negli ospedali o presso le Confraternite religiose. S. Giovanni in Laterano, S. Maria in Trastevere e il S. Spirito avevano ad esempio il proprio camposanto. Fosse comuni venivano poi scavate alle porte della città durante le tragiche epidemie di peste e colera. La pratica della sepoltura all’interno della cinta urbana risale al periodo medievale. Rimase diffusa fino agli inizi dell’Ottocento anche se l’incremento demografico della città, con il conseguente aumento del numero di cadaveri, aveva da tempo provocato seri problemi igienici, anche perché le salme venivano inumate senza bara. Alcune chiese, raccontano le testimonianze dell’epoca, erano talmente invase da terribili esalazioni che molti fedeli svenivano al loro interno. La questione fu affrontata in modo radicale solo durante il periodo napoleonico, anche se le usanze erano difficili da sradicare, e quando nel 1834 si iniziò a chiudere le salme all’interno di bare prima dell’inizio del trasporto, Belli si fece interprete del malcontento popolare, affermando: “è una bbella porcheria/ st’usanza der cadavero incassato”.

I cimiteri sconsacrati
Non tutti potevano usufruire dei luoghi di sepoltura ufficiali: cimiteri a parte erano infatti riservati a prostitute, suicidi e peccatori. Bastava non rispettare il precetto pasquale per essere interdetti dalla sepoltura ecclesiastica. Stessa sorte toccava, a seconda dei periodi, alle più svariate categorie: nella seconda metà del Cinquecento addirittura a coloro che morivano mentre assistevano alle lotte di tori, vietate con una Bolla di Pio V. Intorno al piccolo cimitero sconsacrato sorto lungo il Muro Torto, scomparso ormai da tempo, qualcuno tentò il business: era infatti credenza diffusa che le “povere anime” degli impenitenti favorissero le vincite al lotto. Una visita durante le sepolture e qualche preghiera di rito erano gli ingredienti necessari per ricevere i “segni” dai defunti, che un apposito libro traduceva in cifre. E’ invece ancora in funzione il cimitero acattolico aperto nel Settecento presso la Piramide Cestia: tra le spoglie ospitate – circa 4 mila – vi sono quelle di Antonio Gramsci e dei poeti Keats e Shelley.
Il mese dei morti. Nella Roma di un tempo novembre era dedicato a solenni cerimonie funebri, allestite un po’ ovunque in ricordo dei “defunti di Cristo”: la più importante si svolgeva nella chiesa di S. Maria dell’Orazione e Morte in Via Giulia. Nella cupa atmosfera di una chiesa tappezzata di drappi neri, ceri accesi e fiori veniva esposto un catafalco composto di ossa e teschi, a simboleggiare i temi della morte e della salvezza. Come se non bastasse, due scheletri con clessidra e falce ammonivano: “Ancor noi fummo/ come voi/ che qui venite…”. Queste macabre rappresentazioni colpivano la popolazione romana, che nel Sette-Ottocento si recava in massa nella sotterranea cappella della chiesa, simile al cimitero dei Cappuccini in Via Veneto. Al termine delle cerimonie la statua della Madonna del Rosario veniva portata in processione fino al cimitero del S. Spirito.

I litigi sulle sepolture
Parroci e Confraternite si contendevano spesso il diritto di sepoltura dei defunti: talvolta fu persino necessario l’intervento delle autorità per risolvere le controversie. Tanto zelo, che può sembrare strano, non era in effetti disinteressato: in materia esistevano precisi interessi economici. Mentre i poveri dovevano infatti essere inumati senza “emolumenti né mercedi”, vi era una tabella di prezzi e compensi spettanti a chi effettuava le altre sepolture. Forse proprio questo motivo poco “nobile” spiega la folta partecipazione ai cortei funebri, che proprio per evitare disordini erano talvolta regolamentati per legge. Numerosi provvedimenti furono emanati, nel corso dei secoli, in materia di morti e camposanti: Bandi contro coloro che profanavano i cimiteri, asportavano reliquie o vi cavavano pozzolana, regole per il trasporto dei defunti in periodo di epidemie e norme di vario genere. Nel 1566 il card. Vicario aveva vietato, senza molto successo, di “fare costruzioni nelle chiese e nei portici delle medesime e ordinato di seppellire i morti nei luoghi adatti”. Un provvedimento del 1675 proibiva invece “di seppellire i morti senza alcun indumento, specie se donne o sacerdoti”. Particolare attenzione era poi dedicata alla chiesa di S. Gregorio al Celio e al suo cimitero, dove era vietato vendere “alcuna sorte di robbe” durante le cerimonie funebri. La Confraternita dell’Orazione e della Morte, istituita nel 1538 per occuparsi delle sepolture, assicurava talvolta una tomba e qualche onore funebre ai non abbienti e ai cadaveri abbandonati: nel Settecento processioni di incappucciati avvolti in lugubri sacchi neri sfilavano spesso per la città. Se è possibile trovare un lato umoristico in un argomento non certo allegro, è da ricercare proprio in queste spedizioni notturne spesso rocambolesche, fra errori di strade, smarrimenti ed incidenti vari, che si avventuravano nella campagna romana per recuperare i cadaveri. Mentre i resti di poveri ed orfani giacevano spesso nell’abbandono, soprattutto in tempi di carestie o epidemie, solenni funerali venivano riservati a nobili ed ecclesiastici. I privilegiati erano in genere tumulati all’interno delle chiese, gli altri dovevano accontentarsi, nel migliore dei casi, dei recinti esterni.

Le “città dei morti”
L’ideazione del Cimitero Monumentale del Verano, allora fuori dell’agglomerato urbano, risale agli inizi dell’Ottocento, quando fu vietata la tumulazione nelle chiese e nei centri urbani; già intorno al III secolo l’Ager Veranus era stato però luogo di sepoltura. Il progetto venne affidato, nel 1811, all’architetto Valadier. Non se ne fece nulla: l’amministrazione francese cadde e Roma tornò al papa. Fu però ripreso circa vent’anni dopo da Gregorio XVI. Il problema di una idonea sistemazione dei defunti non era più rinviabile. Venne allora costruita la cappella cimiteriale e i muraglioni verso la via Tiburtina che consolidarono il Pincetto, la parte storica ricca di monumenti. Nel 1835 il cimitero fu inaugurato dal cardinal Odescalchi, vicario di Roma. Una circolare vietò allora ai parroci di concedere nuovi locali per sepolture entro la città. Ma l’usanza era dura a morire. La popolazione non accettava di allontanarsi dai propri morti; la consuetudine fu veramente abbandonata solo dopo la caduta del potere temporale dei papi. Nei lavori, che proseguirono nei decenni successivi, vennero usati i galeotti, condannati ai lavori forzati. Intorno al 1880 furono poste all’ingresso quattro statue allegoriche: Speranza, Preghiera, Meditazione e Silenzio. La “città dei morti”, che fu anche colpita dal tragico bombardamento americano del 1943, si estese sempre più con il passare del tempo, includendo anche il reparto israelitico e acattolico. Divenne una vera e propria necropoli che, con le sue tombe monumentali e i loculi “distinti” (una sorta di “condominio” dell’al di là), ripropone le distinzioni di classe anche oltre la morte. L’ulteriore incremento demografico di Roma ha poi imposto l’apertura di un nuovo cimitero. Prima Porta, nato alla vigilia della seconda guerra mondiale, è divenuto negli ultimi anni il principale luogo di sepoltura, avendo il Verano praticamente esaurito le sue disponibilità.

La morte come spettacolo
Una stima quantitativa del numero dei giustiziati nella città di Roma è possibile sulla base dei dati della Confraternita di San Giovanni Decollato, l’unica allora deputata ad assistere i poveretti negli ultimi momenti della loro vita. Molti sono conservati all’Archivio di Stato, e consultabili dagli studiosi, quelli rimasti nella sede della Confraternita non sono invece consultabili. Vi furono alcuni periodi in cui le esecuzioni crebbero notevolmente, come negli ultimi decenni del Cinquecento in concomitanza con l’esplodere delle ondate di banditismo, quando superarono anche le cento unità l’anno (e certo non è poco considerando che esecuzioni avvenivano anche in altri luoghi dello Stato Pontificio). Nella Roma del Cinque-Seicento l’esecuzione della pena di morte, l’uccisione del colpevole assumevano la funzione di monito, di deterrente nei confronti della popolazione. Per questo, le esecuzioni avvenivano quasi sempre in pubblico, nelle piazza romane, e le teste dei giustiziati venivano esposte in vari luoghi della città. Una descrizione dell’uccisione in pubblico di un bandito alla fine del Cinquecento ci viene data dal segretario di Montaigne, allora in soggiorno a Roma: il fuorilegge che viene condotto al patibolo l’8 gennaio del 1581 è Catena, un famoso capo-bandito. Sul luogo dell’esecuzione vi erano circa 30.000 spettatori (su una popolazione della città che si aggirava intorno alle 150.000 unità): un “gran concorso di gente”, spiegavano gli Avvisi, “perché ognuno desiderava vedere per la fama che aveva: era giovane di 30 anni e ha fatto 54 homicidij, ed è stato 12 anni fuoruscito”. Precedeva il condannato un corteo aperto da un gran crocefisso e composto dai membri delle confraternite incappucciati e vestiti di sacco nero, che accompagnavano il malcapitato fra orazioni e riti religiosi. Dopo la morte, spesso avveniva lo squartamento, sul corpo di condannati che avevano commesso reati in diversi luoghi dello Stato, dove venivano poi inviate ed esposte le varie parti del corpo della vittima. In realtà, ci dice Montaigne, la spettacolarizzazione del supplizio, anziché dimostrare al popolo (come nelle intenzioni) il trionfo della giustizia, scatenava sentimenti di pietà per il condannato.”

Testo di Paola Staccioli
“Nella Roma dei Papi”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *