Pangiallo romano


Da quasi duemila anni, pur se cannibalizzato da panettoni e pandori, la tradizionale miscela di farina d’orzo, miele e frutta secca tipica dell’epoca romana si trova ancora in alcune pasticcerie della Capitale mentre non manca mai nel resto del Lazio.Una pagnotta gialla come l’oro e tonda come il sole, da donare con l’auspicio che i lunghi mesi d’inverno si esauriscano in fretta. Ha il fascino della leggenda e la sacralità del rito propiziatorio la miscela di miele, frutta secca e cedro candito che anima la ricetta tradizionale del Pangiallo romano: un dolce che per quasi duemila anni è stato nel Lazio il piatto tipico delle feste natalizie, ma che oggi purtroppo risulta quasi completamente estinto dalle tavole e dai banconi di bar, pasticcerie e fornai della Capitale.

La sua storia è antica quasi quanto Roma. Si tramanda che già nell’età imperiale fosse usanza, in occasione del solstizio d’inverno, preparare e regalare un dolce che per forma e colore ricordasse il sole. Perché la sua parte esterna, di un giallo acceso, avrebbe portato in casa la luce intensa che richiamava il ritorno della bella stagione. In un capitolo dedicato ai dolci del «De re coquinaria» di Apicio, noto «chef» dell’antichità, si trova traccia della ricetta del Pangiallo. Il cuoco consigliava: «mescola nel miele pepato del vino puro, uva passita e della ruta. Unisci a questi ingredienti pinoli, noci e farina d’orzo. Aggiungi le noci raccolte nella città di Avella, tostate e sminuzzate, poi servi in tavola». Col tempo, nei secoli, divenne la specialità dei fornai della città e della regione, nonché il vanto della produzione domestica di dolciumi natalizi

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